Una famiglia sana è normalmente conflittuale perché, anche se oggi è composta da pochissime unità, resta pur sempre un esperimento di convivenza tra diversi, per età, sesso e storie personali– Fulvio Scaparro

Omaggio a Irene Bernardini (1953-2016)

In ricordo di Irene, preziosa amica e collega, ho scelto di usare le sue stesse parole
per rievocare le origini di GeA Genitori Ancòra.
Fulvio Scaparro

La nascita di GeA Genitori Ancòra

(tratto da: Irene Bernardini, introduzione a Finché vita non ci separi, Milano, Rizzoli, 1995, pp 9-14))

“Poveri bambini!”: é un’esclamazione che di rado si sente a proposito di bambini che crescono in famiglie formalmente unite in cui regnano disamore, indifferenza e ipocrisia. Ma è un commento quasi automatico se la famiglia si rompe, magari senza neppure eccessivo fragore.

Mi diceva tempo fa un insegnante delle medie: “Quest’anno mi hanno dato una ‘prima’ terribile: si figuri che avrò in classe una bambina autistica, un nomade e ben due figli di separati”.

Dei bambini, quando il tema é la separazione tra i genitori, si parla sempre come di vittime. Se c’é una vittima, ci dev’essere un carnefice, e i carnefici non possono essere che i genitori. Non so quanto abbia da guadagnarci un bambino dal fatto di essere pregiudizialmente considerato una vittima, quasi che il fallimento dell’unione tra i suoi genitori dovesse fatalmente prefigurare per lui una sorta di orfanità.

Forse, si potrebbe pensare, questo avviene perché a tutti noi viene più facile immedesimarci nei bambini, prendere la loro parte. Ma i bambini da che parte stanno?

Da dieci anni mi occupo, a vario titolo, di mamme, papà e bambini alle prese con la separazione. Gli incontri con loro mi hanno fatto pensare molto, mi hanno molto emozionato. Le cose che scrivo in questo libro sono il tentativo di raccontare quei pensieri e quelle emozioni.

Ho studiato psicologia perché “da grande” volevo fare la psicoanalista. Mentre mi formavo attraverso interminabili analisi personali e didattiche alla psicologia analitica junghiana, ho cominciato, dopo la specializzazione, e dopo essermi misurata con alcune sorvegliatissime e insperabilmente ben riuscite psicoterapie, ad occuparmi di conflitti familiari.

Su indicazione di un collega molto esperto e molto stimato, che chiamandomi a collaborare alla sua attività di perito mi aveva offerto una preziosa occasione di apprendistato, il Tribunale per i Minorenni, il Tribunale ordinario e la Corte d’Appello di Milano hanno preso ad avvalersi di me, in qualità di Consulente tecnico d’ufficio in materia di adozione internazionale e soprattutto di affidamento dei minori nelle cause di separazione e divorzio. Per quanto riguarda quest’ultimo campo d’applicazione si tratta, per chi non lo sapesse, di questo: nelle controversie tra genitori in separazione circa l’affidamento dei bambini e la loro gestione, il magistrato, su iniziativa propria o su richiesta delle parti, incarica un esperto di svolgere un’indagine psicologica sul nucleo familiare e di esprimere un parere sulle migliori soluzioni da adottare “nell’esclusivo interesse dei minori”.

Inizialmente, pur grata di queste occasioni di lavoro e di arricchimento professionale, le consideravo un passaggio, una sorta di tirocinio destinato a trovare compimento e superamento nella ancora ambìta consacrazione ad analista.

Le donne, gli uomini, i bambini che in quei primi anni ho incontrato, l’indubbio fascino che il mondo del diritto esercitava ed esercita su di me, ma anche le contraddizioni, le carenze, il mio stesso disagio nel muovermi in una materia emotivamente incandescente che, paradossalmente, l’intervento del diritto e del giudizio finiva per rendere ancora più esasperata, tutto questo mi ha portato, quasi mio malgrado, a sviluppare una enorme passione per quello che facevo.

Accanto alle soddisfazioni, all’interesse che quel lavoro mi dava, avvertivo sempre più un senso di frustrazione e di impotenza: come psicoterapeuta mi ritrovavo spesso a raccogliere i cocci di separazioni devastanti; come Consulente del giudice mi sembrava di entrare in gioco quando le relazioni tra i genitori che incontravo erano ormai deteriorate e piegate alla logica della vittoria e della sconfitta.

Potevo tuttalpiù capire come stavano le cose, riferirlo al giudice e suggerire il male minore, ma non potevo incidere, anche se con l’esperienza mi capitava sempre più spesso di intravederne la possibilità e il modo.

Giudici, avvocati, psicologi, assistenti sociali, talvolta addirittura le forze dell’ordine troppo spesso finiscono, tutti insieme, per radicalizzare il conflitto ed esacerbare irrimediabilmente gli animi. Ricorsi, memorie, udienze, perizie d’ufficio e di parte, relazioni delle assistenti sociali: le persone si trovano travolte da un meccanismo che solo illusoriamente le vede protagoniste, che spesso solo apparentemente è più civile e razionale del conflitto originario.

Mi andavo rendendo conto come la separazione giudiziale manchi in troppi casi l’obiettivo fondamentale di tutelare l’interesse del minore. Che in troppi casi – e le ragioni sono evidentemente complesse, di ordine culturale, di cultura istituzionale e giuridica, di ordine procedurale – la più illuminata delle sentenze, alla fine di quella sorta di monologo collettivo cui accennavo prima, cade su un terreno devastato in cui gli affetti primari di un bambino sono, quando va bene, scissi in universi paralleli e ostili. L’esperienza della separazione trasposta bruscamente e troppo precocemente sulla scena giudiziaria irrigidisce e fissa gli aspetti più distruttivi della crisi; impoverisce gli individui; ostacola l’elaborazione individuale della perdita e del fallimento; espone i bambini, protagonisti paradossali perché grandi assenti, alla perdita non solo dell’unione tre i genitori ma anche della loro integrità e serenità individuale.

Se i bambini diventano scudi umani nella guerra “intelligente” e sofisticata in corso tra i loro genitori non è insomma solo colpa dei loro padri e delle loro madri trasformati in mostri dal contrasto coniugale. Se è vero che è il silenzio della ragione che genera mostri, credo che dovremmo interrogarci sulla presunta razionalità che l’intervento dell’istituzione e delle sue lunghe mani introduce nel contrasto tra un padre e una madre.

Le statistiche e le ricerche in questo campo dicono che nei centri urbani del centro-nord i matrimoni che sfociano nella separazione sfiorano la metà. Sono tanti i libri che parlano della crisi della famiglia, e ne spiegano i motivi.

Su quasi 5000 separazioni all’anno dinanzi alla sezione 9a del Tribunale civile di Milano, circa due terzi sono consensuali. Anche ammettendo che non tutte queste consensuali siano davvero sinonimo di accordo e serenità delle relazioni, é verosimile che una buona parte di esse poggi davvero sull’intesa. Eppure l’idea comune è che la separazione coniugale, specie quando ci sono i figli, avvenga tra i più aspri e sanguinosi litigi. Se ne parla quasi sempre a tinte fosche, nei toni della tragedia.

Chiunque, ancorché non ne abbia fatta esperienza diretta, ha all’interno della propria cerchia di amici e parenti qualcuno che ha attraversato una separazione. Eppure l’ordinarietà dell’esperienza diretta o indiretta convive ancora con la percezione dell’evento come straordinario e per tanti versi scabroso. Se i nostri amici o conoscenti si separano con grandi litigi, non si parlano più e si scambiano angherie attraverso i figli, ne parliamo con pena, con disapprovazione, ma, fatalisticamente, non ce ne stupiamo. Lo stupore é riservato a quelli che sono rimasti amici, o almeno solidali come genitori, che si vedono, si parlano, si occupano insieme dei figli.

I bambini che soffrono per la separazione dei loro genitori, che diventano ostaggi o strumenti piegati al conflitto tra i grandi sono tanti, sono sicuramente troppi. Lavorando mi sono convinta però del fatto, apparentemente ovvio, che il più delle volte i grandi si comportano male perché soffrono: perché la rottura della propria famiglia, quella subìta ma spesso anche quella voluta é un momento di crisi radicale. Ma di questa sofferenza l’ambiente circostante, dalla vicina di casa fino al più illuminato dei magistrati, amplifica perlopiù lo scandalo, il fallimento, la colpa. La “famiglia monoparentale”, dotto termine socio-psicologico in cui rientrano i nuclei costituiti da genitore separato e figlio affidato, é un’espressione che ricorda certe malattie subdole e croniche. O una categoria dell’handicap.

La diffidenza e il risentimento diffuso e subdolo che le donne e gli uomini che si separano incontrano subito fuori dalle mura domestiche non li aiuta a restare buoni genitori. Il pregiudizio negativo che grava sui genitori che si separano é un’aspettativa potente, che permea di sé l’ambiente circostante: dalla signora della porta accanto all’istituzione giudiziaria ai mass media. E’ così potente perché si salda con la profonda insicurezza, con il senso di colpa e di fallimento, con la destabilizzazione dell’immagine di sé che la crisi separativa comporta per ognuno.

I genitori che si separano hanno invece bisogno di sentirsi e di essere trattati come genitori normali che attraversano un brutto momento. Che hanno semmai il compito, certo non facile, di riorganizzare le loro vite e quelle dei figli in modo da conservare loro la possibilità di crescere nell’amore e nel rispetto di entrambi.

Così, Fulvio Scaparro, il collega che mi aveva iniziato al lavoro peritale e in generale al lavoro di consulenza in materia di separazione, intervenne nuovamente ad offrire sbocchi alla competenza ma anche al disagio che in quei primi anni andavo maturando. Mi propose, nel 1987, di progettare e promuovere insieme a lui un servizio di mediazione familiare. Si tratta di una pratica già allora molto diffusa negli Stati Uniti e in Canada, da poco introdotta anche in Inghilterra e Francia, che si rivolge alle coppie in separazione: la mediazione familiare é un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio. In un contesto strutturato il mediatore, come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i genitori elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale.

Accolsi l’idea con non poco scetticismo. Com’è possibile, mi chiedevo, che otto o dieci incontri bastino a placare gli animi esacerbati di certi genitori? E poi cosa può ottenere un intervento così pragmatico, circoscritto e focalizzato come quello della mediazione, così come la andavo conoscendo studiando l’esperienza americana, che non entra nelle dinamiche profonde degli individui e della coppia? Si tratta di un intervento, leggevo, che si avvale delle tecniche di negoziazione, che mira a favorire un processo di presa di decisione in vista di un accordo tra le parti in contrasto, che si centra sulla funzione di un interlocutore, sentito come neutrale e attendibile da entrambe. Perché quest’americanata, mi dicevo, dovrebbe riuscire là dove le sofisticatissime tecniche psicodinamiche di cui già disponiamo, falliscono o risultano inapplicabili? E l’inconscio, last but not least, dove lo mettiamo? (leggi: e i miei anni di analisi e controanalisi e durissimo training dove li metto?)

Confesso che inizialmente la mia adesione fu dettata da una sorta di atto di fiducia e dall’intuizione che ne valeva la pena . Un’intuizione più simile al presentimento che non alla lungimiranza. O forse, pensandoci bene, dal disagio che avvertivo, un disagio cui la filosofia e il respiro della mediazione familiare offrivano un senso e una prospettiva.

Il centro di mediazione familiare che abbiamo realizzato nel 1989 è un piccolo servizio che offre un grande vantaggio: è un laboratorio dove si sta dimostrando possibile e utile affrontare la vicenda della separazione tra genitori senza ricorrere, più o meno consapevolmente, a categorie come patologia e devianza, colpa e punizione, vittoria e sconfitta, senza accettare deleghe, senza sottrarre ai genitori il diritto-dovere di essere adulti e responsabili, protagonisti della loro vicenda familiare anche nella crisi, interlocutori e tutori principali dei loro figli, genitori cui non è chiesto né è permesso di abdicare in favore di alcuna autorità istituzionale o esperto, al loro compito di decidere, il più possibile insieme, per il loro bene .

C’é bisogno di una nuova cultura della separazione, che lasci maturare negli individui e nella società l’idea e il sentimento che la scelta del distacco ha lo stesso valore e merita lo stesso rispetto della scelta di unirsi. Se non altro perché l’una implica l’altra.



Comments are closed.